Ugo Attardi

Ugo Attardi nasce a Sori (GE) nel 1923, da una famiglia di emigranti siciliani. Dopo pochi mesi dalla sua nascita la famiglia torna in Sicilia, dove, al compimento degli studi, frequenta l’Accademia delle Belle Arti e la Facoltà di Architettura.

Nel 1945 si trasferisce a Roma.

È il 1947 quando con Pietro Consagra, Piero Dorazio e Giulio Turcato, fonda il movimento artistico “Formula Uno”, di ispirazione astrattista.

Agli inizi degli anni cinquanta, orienta la propria arte verso l’espressionismo, ispirato dal lavoro di Gorge Grosz e Francis Bacon, artisti della Berlino effervescente e tragica degli anni di Weimar.

Nel 1952 viene invitato per la prima volta alla Biennale di Venezia (sarà nuovamente invitato nel 54’ e nel 78’), successivamente esporrà a Praga, Mosca, Los Angeles, Londra, Parigi e New York.

Attardi completa la sua visione artistica approdando alla terza dimensione. È il 1967 l’anno in cui inizia a scolpire. “Addio Che Guevara”, la sua prima scultura è un basso rilievo in legno dedicato all’eroe della Rivoluzione Cubana. Seguiranno opere come  ”Cortes e là Bellezza dell’Occidente”,

il “Ritorno di Cristobal Colon”  (Complesso Scultoreo installato a Buenos Aires – 1993) il

“Vascello della Rivoluzione” (Complesso Scultoreo installato a Roma – 1989), “l’Ulisse”, (Complesso Scultoreo installato a Roma e a New York – 1996), “l’Eroe” (Complesso Scultoreo installato a Roma e a Malta – 2004)

“L’Ulisse” rappresenta un punto alto del suo percorso artistico come scultore, è  il mito del Viaggiatore che ha superato ogni sorta di avversità e che non si è mai tirato indietro davanti a nulla. Non a caso la sua collocazione al Battery Park di New York, di fronte la Statua della Libertà, vuole celebrare una continuità tra chi ha permesso la nascita della classicità e chi ha contribuito alla costruzione di una grande democrazia.

 

L’ultima fase del percorso artistico del Maestro Attardi è ispirata da un grandissimo viaggiatore del XX Secolo: Papa Giovanni Paolo II. Autentici capolavori pittorici e scultorei, quali “Ricordando l’Antica Umiltà”, “Predicazioni tra immagini irriverenti” e “L’uomo dei Dolori” (Complesso Scultoreo – Musei Vaticani – 2002), ne sono la testimonianza.

 

 

 

CRITICA:

 

ERNESTO SABATO

Ugo Attardi è riuscito a trasmettere alla materia la complessità esistenziale e metafisica dell’essere umano.
Risulterebbe impossibile rintracciare e comparare la sua eredità artistica, giacché la sua opera è il risultato di uno spirito originalissimo, un creatore libero e solitario anziché un artefice addomesticato dalle lodi e dagli applausi delle accademie.
Gli orizzonti della sua infanzia, nella provincia di Agrigento, esalteranno la sua sensibilità.  In commoventi passaggi del suo romanzo “L’erede selvaggio” farà rivivere la magia di quegli anni in Santo Stefano Quisquinà ma anche la fame, i sacrifici, la ribellione di suo padre e il terribile assassinio di suo zio lo adombrerà.  Così scrive “… una trama impercettibile: un’ombra di fatalità permaneva nelle cose e in quello splendore”.

Alla fine degli anni Quaranta, l’atmosfera tormentata dagli orrori della guerra lo allontaneranno dall’orientamento astratto che per qualche tempo – senza dubbi e interrogativi – aveva caratterizzato la sua pittura. Scosso dalla tragedia dell’uomo, dalla sofferenza che patiscono le vittime della violenza e del potere si abbandona al tema predominante.  L’audacia e il fervore appassionato con cui lavora non risponde a nessuna ideologia né partimmo, al contrario vede con partecipazione sia chi soffre sìa chi aggredisce, anch’esso vittima della violenza che esercita. Come ogni grande artista egli non pretende di addottrinare ma vuol comprendere una umanità che, paradossalmente, nel sacrificio si distrugge e si rigenera.  “Adiós Che Guevara”, “Mujer que cura un nino enfermo” e la serie dei disegni che compongono “Questo matto mondo assassino ” ci stupiscono per la loro bellezza, e per l’alto contenuto etico che concorrono alla dimensione estetica di questa opera.  L’energia sfrenata, il tormento e l’esaltazione delle sue figure ci richiamano alla profonda intuizione di Dostoevskij: “Dio e il Demonio si disputano il cuore dell’uomo”. La complessità dei fatti storici con la sua lotta incessante del bene e del male, di Eros e Thanatos, sono questioni che lo coinvolgono da sempre e che a partire dagli anni Sessanta daranno origine a un complesso di notevoli sculture: “La llegada de Pizarro “, “Cortès y la belleza de occidente “, “La vuelta de Cristóbal Colon “. La costernazione dei volti, la pulsione dei muscoli, la molteplicità dei piani definiscono il suo stile barocco che ci porta al soprassalto e all’ebbrezza. Il forte erotismo di queste figure sintetizza l’impeto smisurato di Lautrec e la sensualità nostalgica di Rodin. Colonizzatori che avanzano, donne-terra che si sottomettono, dimostrano, in questa grave parabola dell’esistenza, che la vita sempre ha qualcosa della conquista e dell’esilio.  Il vigore, la drammaticità e la forza scenica di questa opera è paragonabile a quanto Artaud esigeva in teatro, le cui parole servono a farci comprendere lo stupore che ci invade ad osservarle: “Per il nostro presente stato di degenerazione solo per la pelle possiamo risentire un’altra volta la metafisica dello spìrito”.

Ugo Attardi è senza dubbio, un autentico demiurgo che cattura in un istante il complesso,permanente e contraddittorio divenire dell’essere dell’uomo.

 

CARLO LEVI 

In una brevissima nota su Ugo Attardi scritta recentemente per una sua esposizione, mi pareva di dover indicare, come uno dei motivi fondamentali, delle idee dominanti della sua pittura, il senso della contemporaneità delle immagini “che si presentano al pittore sul doppio piano del valore attuale della realtà che si uniscono e si giustappongono per formare una immagine complessa del reale”.
Questo sentimento o filo conduttore della pittura si realizza, anche materialmente, con la giustapposizione e la partizione dei singoli quadri , o con la deformazione della figura in immagini che contengono una possibile molteplicità.
Ma si potrebbe  aggiungere che questo senso della contemporaneità non è tanto sentito  come naturale unità in un tempo unico di cose, persone o idee che esistono soltanto in quella unità rimanendo ciascuna nel proprio spazio, ma piuttosto una cospazialità , come se le forme lottassero fra di loro per occupare lo stesso spazio, e volessero almeno apparire insieme mettendo almeno una parte di sé in quell’unico luogo che è il quadro: una cospazialità dunque aperta a tutti i simboli, angosciosa e violenta.
I quadri recenti, raccolti oggi alla “Santacroce”, che mi sembra culmino e si riassumano nell’opera nuova e importante, l’”Addio Che Guevara”, pongono ormai tutti, con straordinaria coerenza, nei loro spazi, il contenuto di quella cospazialità: il problema della violenza. Violenza in tutti i sensi, in tutti i piani, in tutte le accessioni, dirette o indirette. Violenza bruta dell’azione (gli assassini). Violenza del sesso (gli amanti). Violenza delle idee ossessive (i sogni, gli incubi). Violenza sull’uomo, politica, economica, religiosa e sociale, e sulle idee (figure militari, immagini stravolte).
La violenza è supposta perfino nelle immagini più innocenti e più dolci, come nei teneri ritratti (una fanciulla elegante, nella sua atmosfera rosa e verde e viola, di una felicità liberty, ha vicino il fantoccio sanguinoso e mutilato, le mani che lo stringono; altri, pieni di amorosa penetrazione psicologica, sono chiusi in prospettive da incubo, che diventano il centro pittorico del quadro).
Questa violenza si vale talvolta dei simboli storici del nostro tempo (il soldato, il nazi, assasino di ferocia sessuale, in camere incantate e funeste, camere a gas della distruzione dell’uoma-una giacca pesante e vera copre il profilo della morta, pura ombra-l’uccisore di un polizia tedesco-giapponese-americana, mezzo sesso e mezzo automa, ecc.), talvolta delle immagini più consuete quotidiane.
È la violenza che è nelle cose, è quella che riempie l’anima: una violenza oggettiva e soggettiva, che identifica chi la fa e chi la subisce, che sta nel mondo prima di essere contemplata, prima dell’intervento della pittura: uno spavento fondamentale, un peccato remotissimo, insieme angosciosamente sofferto e angosciosamente idoleggiato. Il problema del rapporto di questa nera realtà con una sua possibile espressione (che comporta, necessariamente, partecipazione e giudizio) pare qui si ponga in termini pittorici soltanto come deformazione o inclusione di una invenzione fantastica in un mondo del tutto reale e quotidiano, tipico di un certo momento storico; o come deformazione del colore (la sedia atrocemente rossa, il pavimento a scacchi striduli nel “Gli Assassini”).
Attardi confronta il suo stile, le sue gamme (che sono affettuose e tenere, con le stesure opache delle nebbie dorate sul Tevere, e il rosato dei corpi) con un contenuto che le contraddice, e lo sforza a gridi e acerbità stridenti, tanto più quanto l’argomento della violenza ritorna, presente nei minimi particolari, come un’ossessione. Si direbbe che Attardi senta (abbia sempre sentito in tutte le sue opere, ma in queste ultime in modo più intenso e più preciso) la violenza come la ragione negativa del mondo. Che la storia di questo secolo di campi di concentramento, di camere a gas, di prigioni, di stragi, di uccisioni, di sangue, di servitù morale di conformismo violento, di alienazione, lo abbia portato a ritrovare nel momento della violenza la sua diabolica struttura. Tanto più orrenda e vergognosa quando si rivela nelle azioni quotidiane, negli oggetti più comuni, le scarpe, le pantofole, le mutande, i tappetini, le stanze degli amori notturni, i letti dalle testiere dipinte, le immagini sacre appese al muro, e cosi via: sporchi e ovvi testimoni di sadiche esplosioni private. La minuzia di questi particolari violenti, di questi oggetti dimenticati sul luogo del delitto, con lo stile del fatto di cronaca diventano improvvisamente museo degli orrori, si accompagna a una continua componente sessuale, al sesso come violenza al mostrarsi del suo peso, turgore, ricerca di involucri e impossibili nascondigli.   E al travestimento: quello delle divise dei mostri della guerra del ricordo di un oriente di ossessive torture; alle maschere doppie, triple sul viso degli assassini, o sugli occhi degli amanti diabolici del sadismo popolare e schematico dei fumetti: elemento anch’esso di una violenza culturale.  A questa violenza i corpi (pesanti, muscolosi, realisticamente voluminosi) non resistono nella loro integrità.  Sono tutti in qualche modo mutilati, incompleti, tanto più deformi o inesistenti in una qualche loro parte, quanto più determinati e normali in tutto il resto (la donna nuda, teneramente sdraiata su un letto, o atrocemente su una barella o su un tavolo di obitorio, con le dolci forme del corpo e il segno di un legaccio alla coscia, quasi a provarne la realtà, ma la testa informe e doppia e il piede trasformato in rotella dì sperone, il mutilato – uccello che contempla l’uccisione – e che nel disegno preparatorio ha invece un viso sorridente di sadica beatitudine e la donna rovesciata e già inesistente sotto i colpi dell’assassino mascherato, dalle gambe nude infilate nelle scarpe; e così via).   In quest’atmosfera di violenza che penetra dappertutto i corpi diventano incompleti, deformi, sminuzzati in frammenti, parimenti alterati negli assassini come nelle vittime.
Questo mondo di violenza è dunque accettato come inevitabile, ombra permanente e indistinguibile dalle cose? La risposta (e il senso, non solo pittorico, di tutta l’opera) è nel bassorilievo di Che Guevara. La materia stessa, un legno chiaro e dorato, comporta forme diverse, unificate senza rotture in quella superficie appena rialzata da colori leggeri, dall’aureola nera di Che Guevara morto. Attorno a lui, come diavoli medioevali, si affollano mostri della violenza, poliziesca e sessuale, uccisori e donne diaboliche, ricordi di idoli arcaici. In mezzo ad essi si adagia, col grande torace pieno di potenza, e un gesto da resurrezione, in un mondo di terra e di grano, Che Guevara.Quest’opera sembra una pala di altare. Si direbbe che la sua immagine è posta qui come risposta reale alle immagini di una violenza che copre tutto il mondo e da cui non si può sfuggire.È un’altra specie di violenza, del tutto diversa perché non si identifica con il suo oggetto, non perpetua il cerchio vittima-carnefice, ma lo rompe e lo annulla; e si pone, anziché come distruttrice e corruttrice delle forme e delle realtà, come attività formativa e creatrice. È la violenza rivoluzionaria. Qui troviamo dunque la indicazione di una risposta: di quella che la pittura e la storia dovranno darci.

Per la mostrattardi 1/03 – 14/03 presso la galleria d’arte santacroce

 

LEONARDO SCIASCIA

Nello studio di Attardi, appena entrati ci troviamo di fronte a una grande (non soltanto nelle dimensioni) scultura in legno: un’allegoria della “conquista del Perù” in cui subito si coglie come una contraddizione tra la politezza della materia e l’atrocità delle forme, tra l’amore con cui la materia è stata cromaticamente giustapposta, scavata, levigata e l’orrore che ne è sorto.   Ma non è una contraddizione: l’amore è parte dell’orrore.   L’amore a rappresentare il mondo, a riviverlo, a restituirlo, e per Attardi misura della paura, dell’odio, dell’orrore in cui lo si vive quotidianamente, cioè storicamente e storicisticamente, in ogni momento del presente compreso il passato, tutto il passato, tutte le “conquiste”. E in questo senso, si direbbe che il tema della “conquista” domini le cose su due di questi anni: sculture, pitture, acqueforti.   E che l’allegoria della “conquista del Perù” ne comprende e susciti altre, di fatti che magari s’appartengono alla cro-naca cittadina, di delitti che scattano dal contatto

e contagio venereo.   La “conquista” come delitto – e sarebbe già ovvio. Ma anche come difformità e deformità, come idropisia, come gotta, come luce – quasi che la limpieza de sangre, gelosamente affermata e custodita, a contatto della “conquista”, nell’avido e feroce possesso, si rivelasse finalmente marcìume, impotenza, follia.   E viene da pensare a quei versi di Lope de Vega, in cui parlando del Vangelo di Matteo dice “a quel famoso / Libro, que visto en las supremas salas, / confirma la hidalguia / de Cristo, por la parte de Maria” – e le supreme sale sono quelle dell’Inquisizione dove anche Cristo, per il suo lato umano, dovette passare al vaglio della “purezza del sangue”.   Ed ecco questa “purezza del sangue”, questa “hidalguia”, di fronte alla “conquista”, di fronte alla donna e all’oro, escrescere in nodi e tumori, gonfiarsi d’impotenza, tarlarsi di follia, La “honra” – l’opinione che un uomo ha di sé e su cui deve coincidere l’opinione che ne hanno gli altri: pena la morte degli altri o la propria – non resiste alla “conquista”.  Nella “conquista” non c’è nemmeno la morte: non quella degli altri, non la propria.  C’è il contrario giusto della “honra”: la vergogna, il disonore.  Pizarro e l’amore, una delle acqueforti più intense di Attardi, dice l’impossibile amore, l’impossibile morte, che è nella “conquista” e in ogni conquista.  L’impotenza e la violenza si sono rivelati come il contenuto della “honra”: e si può uccidere tutto, una donna o un popolo, ma non l’opinione dì sé, di sé nell’impotenza, nella vergogna, nel disonore Ed è immagine e parabola di tutta una “civiltà * un modo dì essere, che soltanto si salva per la forza di testimoniarsi: come appunto nelle cose di Attardi.

Testo del 1972

 

CARLO LUDOVICO RAGGHIANTI

Credo che Ingres stesso avrebbe lodato questo segno e questo plasmare di Attardi, tra i più sensuosi e struggenti, estenuati e impulsivi come nell’amore.  E non dubito di affermare che questa grafica dell’artista, e in essa i nudi gracili, ma pure esilmente conturbanti nei loro sdutti e moventi profili nudi di fanciulle supine, prone, di schiena, coricate, nella loro delicatissima contemplazione e passione, stanno tra le produzioni più originali, sincere, rivelatrici del tempo, anche nel coglierne turbamenti od èmpiti, che l’artista tocca con mano trepida e con ritegno o col riserbo che manifesta anche nella scrittura del romanzo. La modellazione di questi disegni e delle acqueforti rivela più che la pittura una vocazione e una ricerca che portano l’artista a una svolta che forse non casualmente è segnata anche dalla ricapitolazione mnemonica e dal mito della biografia adolescente e giovanile, quasi una sosta e un raccoglimento, lo credo che anche la tragica soluzione della primavera cecoslovacca e la coincidente morte per agguato di Che Guevara nel mato sudamericano abbiano scosso profondamente Attardi, come del resto ognuno di noi. Ed è probabile che nello stato d’animo di sconfitta sentita come propria, nel senso di solitudine o di abbandono che subentra alle perdite o alle catastrofi delle cose sperate, per l’artista si sia imposto come un imperio il bisogno generosamente reattivo di contrapporre alla cieca distruzione, ancora una volta, una vita inconsutile cavata dal dono della poesia. Attardi ha realizzato quella condizione universalmente comprensiva della poesia e dell’arte che senza alcuna concessione o compromesso di sorta, lo ha portato a questo vero e proprio trionfo, con una iconografia moderna del rovesciamento dei contrari concretata in forma tutta sensibile e di calmo dominio della bellezza come equilibrio interiore e fisico insieme. Su questa linea esigentissima Attardi ha dimostrato la sua maturità, proseguendola in una serie di sculture (fiancheggiate da opere di bianco-nero) che hanno avuto uno spoglio ancor maggiore del Pizarro, dove l’archeologia azteca è appena trasparente in una maschera del basamento, e dove i simboli delle perversioni e degli assassinii compaiono ancora come contrappunti corali in una tragedia che, pur nella sua virtuale violenza primeva, non si può rivivere se non in una forma supremamente decantata e armoniosa, come i delitti di Edipo si apprendono nel verso di Sofocle.

Testo del 1976

 

PHILIPPE SOUPAULT

Un universo che nessuno scultore, nessun pittore, nessun incisore ci aveva obbligato a scoprire. Chi ci fa da guida? per primo lo scultore che esalta il corpo umano e le sue metamorfosi? Sarà inferno o purgatorio?   E un mondo che si può percorrere solo mantenendo le distanze. Infatti, Attardi è ciò che a stretto rigore potrebbe definirsi un mago, nel senso medievale della parola.   Egli è capace di inquietare e anche di affascinare.   Non c’è da meravigliarsi se lo scultore, lucido ma lirico, in un paese ancora mal conosciuto, la Somalia, ha saputo indovinare, ha riconosciuto le creature così belle e perfette, modelli che egli ha magnificato conferendo loro il mistero di una bellezza incomparabile. Si può supporre che lo scultore abbia così provocato una eccezionale dimensione. Le proporzioni sono esaltate quasi come quelle dei giganti di una mitologia tuttora sconosciuta. (…) Ciò che provoca sorpresa, addirittura stupore, è che l’arte di Attardi non è simile a nessun’altra, non ammette confronti.  Si cerca invano di scoprire delle influenze.  Attardi è libero ed esige libertà.  Non è prigioniero di se stesso come tanti creatori che si ripetono instancabilmente.

Testo del 1981

 

ALAIN JOUFFROI

Attardi non disobbedisce alla logica tradizionale delle forme dell’allegoria.   Egli, in questo periodo in cui sono di moda la paccottiglia, il falso, la derisione post-moderna, ne assume i rischi non trascurabili, che consistono per un artista nell’a-ver l’aria di essere indifferente alla propria epoca.   Le sue figure sono proclamatorie.   Esse vogliono esprimersi, si direbbe che sono pronte a gridare, Ma non dimostrano nulla.   Sono portate, da un soffio, da una forza interiorizzata perché non rispondono ad alcun comando.   Non illustrano, non glorificano nulla, non condannano nulla: esse sono.   Ma quale è in verità quella forza che procede, che sembra davvero procedere per proprio volere?  Quale è la legge incosciente, cui Attardi ha scelto di non derogare? Tutto accade come se il suo incosciente stesso fosse abitato da forme, slanci, convulsioni, vettori storici.   Come s’egli fosse legato al tempo piuttosto che allo spazio in cui la sua composizione sorge come altrettanti alberi, dopo l’alluvione, o come dei relitti sugli scogli dopo il maremoto.   Il suo Vascello della Rivoluzione somiglia a un bastimento ricuperato d’un mondo che qualcuno ha deciso di eliminare, di non più mostrare né considerare.   E’ il “Titanic” di un’epoca vilipesa dai nemici attuali – innumerevoli – del divenire storico della rivoluzione.   Perché non vi è divenire senza la conoscenza di tutte le gradazioni dell’ombra: la faccia nascosta della luna, il Terrore. […]. C’è, nella sua scultura, uno squilibrio folle, una specie di veemenza convulsa, che fa pensare al Bernini, piuttosto che a Michelangelo.   Una coscienza istintiva della tragedia, che ricorda Zadkin, piuttosto che Rodin […].

Testo del 1989

 

JEAN NOEL SCHIFANO

Oggi che si benedice tutto, in arte, che si integra tutto, in arte, che si digerisce tutto, in arte, tanto che si considera l’arte come un piffero inoffensivo o un giocattolo chilifero aumentato d’un valore borsistico, ah! il dollartel, e gli artisti come marionette biodegradabili della Corte repubblicana, oggi, Attardi è un caso unico di rifiuto. Gloria all’artista!… Egli ha infranto, ha rotto, ha trasgredito: dagli all’artista che non si piega! Perché l’artista è scandalo, non leccatore di sandali. È lo scortese che grida per tutti gli scorticati. Il suo barocco non ha niente a che vedere con le ricostituzioni da coturni. Non si gargarizza con la parola, la fa esistere. Non rifugge dalla nostra epoca in un’arte del passato, compresa, cerchiata, ingabbiata, ampollosa, evangelizzata, etichettata, declamata, debilitata, anemizzata nelle università. E’ un barocco esistenziale. E’ un barocco allo stomaco. E’ l’arte suprema della linea mobile, fragile, morente e subito sprizzante di vita, testimone della nostra epoca in cui, mai più di ora, il tempo ha suonato la fisarmonica con lo spazio in vertiginose diastole e sistole in cui, mai più di ora, i materiali, anche i più densi, anche i più fragili, si sono prestati a tutte le metamorfosi, ondeggianti, torte, capricciose dei nostri desideri; in cui, mai come ora, la terra è stata tanto piccola e l’universo tanto grande; in cui, mai più di ora, si è smontato e rimontato il corpo dell’uomo, cambiati i suoi organi, trasformato, trapiantato, dal più micro al più macro; in cui, mai più di ora, si è tanto allungata la giovinezza e l’esistenza mentre la morte atomica minaccia in un secondo di fare del nostro pianeta un cumulo di polvere… Il barocco, oggi proprio reale, è la nostra vita irregolare, sfasata, pazza, che esalta e corteggia la morte, irregolare come la perla portoghese che esce tormentata e lattea dalla sua ferita marina. Attardi scolpisce, dipinge, disegna questo mondo in cui viviamo, e gli specchi infranti che ci tende, concavi, convessi, smussati, senza foglia, testimoniano un realismo magistrale.  Direi dunque che Attardi è un maestro della sola arte che valga in questa fine di secolo; quella che io chiamo realismo barocco. Il cronista dei nostri poteri e delle nostre impotenze disegna da realista barocco la bellezza dei corpi e la loro infermità.  Ci si vede la fessura della donna e la fissione atomica; e, come un tiranno il suo popolo, l’artista non possiede la bellezza che mutilandola, che ingravidandola, che deformandola, perla nera o perla bianca, maschio o femmina, irregolare, sempre. Tutto questo turba gli occhi, disorganizza i neuroni, fa paura. Solo il corpo non mente. Attardi l’ha capito: il corpo è l’esatto specchio dell’anima.  Il mondo in cui regna la menzogna, a cominciare da questa scatola degli inganni, arma dei poteri, che si chiama televisione – letalvisione d’una civiltà bovarizzata – si handicappa, s’atrofizza, s’enuclea, si gambemozza ed amputa la nostra visione della verità e della bellezza.

Solo il mondo selvaggio, primitivo, può ancora salvarci nel suo urto con la nostra civiltà criminale che intesse fino all’aberrazione le forze di vita e le forze di morte. Attardi ce lo dice, basta seguirlo come un filo d’Arianna in un labirinto cruentato di latrati, dove il Minotauro è un Cerbero dalla terrificante voluttà: bisogna scegliere, nella vita, tra l’arte e il crimine.  In quanto agli arti amputati, fanno sempre male, essi sono presenti nella loro assenza, sono l’immagine stessa dell’artista vero di cui la società vorrebbe amputarsi e che, lui, si sente amputato di quella bellezza che cerca senza tregua nel legno, nel ferro, nel bronzo, sulla tela, sulla carta, e che spesso tortura nella rabbia d’averla inventata … L’invenzione della croce tra l’arte e il crimine … E Attardi diviene l’albero della croce, si scolpisce crocifisso, e le varie essenze che ha ferocemente unito prima di afferrare gli scalpelli si mettono a gemere, nel loro travaglio: è il tumore dell’anima del mondo, è il lamento eterno dell’artista, che si inchioda per rivelarci la sua passione dalla croce della creazione. L’artista cerca gemendo tra l’arte e il crimine.

Testo del 1991

 

La scomparsa di Ugo Attardi

Ugo Attardi, uno dei più poliedrici artisti italiani della seconda metà del Novecento, è scomparso oggi a Roma all’età di 83 anni. Pittore e scultore di fama internazionale, aveva ricevuto solo qualche mese fa da Carlo Azeglio Ciampi il titolo di Grande Ufficiale della Repubblica, per i suoi meriti artistici e per aver saputo diffondere e valorizzare in tutto il mondo il genio e la creatività propri del nostro Paese.

Nato il 12 marzo del 1923 a Sori (Genova) da genitori siciliani, l’anno seguente si trasferisce a Palermo. Fondamentale nel suo percorso d’artista l’approdo a Roma, nel 1945, su invito dell’amico Consagra. Qui frequenta lo studio di Guttuso e già nel 1947 entra nel vivo del dibattito artistico partecipando (insieme alla Accardi, a Consagra, Dorazio, Guerrini, Perilli,  Sanfilippo e Turcato) alla fondazione di “Forma 1”, il primo gruppo astrattista italiano del secondo dopoguerra. Ma poco dopo Attardi avverte la necessità impellente di un rinnovato e sia pur visionario rapporto col reale e si allontana definitivamente dall’esperienza astratta, mantenendone comunque alcune conquiste formali. L’artista dà vita a un personale espressionismo esistenziale fondato su una drammatica compresenza delle differenze: bellezza e deformità, tenerezza e violenza, esperienza corporea e dimensione onirica. A partire dagli anni Cinquanta partecipa più volte alla Biennale di Venezia e alla Quadriennale di Roma e presenta grandi mostre personali nei più importanti spazi espositivi italiani. Nel 1961 aderisce al gruppo “Il Pro e il Contro”, accanto a Calabria, Farulli, Gianquinto, Guccione e Vespignani.  Un viaggio in Spagna lo induce alla riscoperta dei classici e all’approfondimento degli studi storici. Sono questi anche gli anni della stesura del romanzo L’erede selvaggio, pubblicato nel 1970 e per il quale otterrà nel 1971 il Premio Viareggio per la narrativa. Nel 1967 avvia una fervida attività di scultore e nascono, dopo L’ Addio Che Guevara del 1968, alcuni gruppi lignei tra cui L’Arrivo di Pisarro del 1968-71 e sensualissimi bronzi, come La Maga del 1974. I suoi monumenti sono collocati nelle principali capitali europee e mondiali. Solo per ricordarne alcuni: Il Vascello della Rivoluzione, realizzato nel 1988, si trova a Roma, presso il Palazzo dello Sport; Nelle Americhe, del 1992, a Buenos Aires; il celebre Ulisse, del 1997, a New York; Il Cristo, del 2002, è entrato a far parte della collezione dei Musei Vaticani. Nel 2004, una scultura di Ugo Attardi raffigurante Enea è stata donata al popolo maltese e collocata all’entrata del porto della Valletta.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *